I

Tutto quello che oggi m’occorre è sentirmi in comunione con qualcuno.
Come se dovessi infrangere un guscio, io chiuso da tutti i lati, e fosse per me cosa assurda e grandissima.
Rimango sempre deluso e solo, a guardare con occhi sempre più imbambolati la gente che corre, mattina e sera.
Forse c’è un destino comune a tutti noi. Guardarci, osservarci di continuo per trovarci gioie e dolori, per scoprire in qua! maniera, e con quale intensità, gli altri gioiscono e afferrano la vita nella sua corsa sfrenata. O almeno questa è la mia impressione.
Quando s’interrompe per me questo scambio di pensieri è come se l’ormeggio che mi teneva attraccato al molo della vita quotidiana si spezzasse, ed io fossi abbandonato, allora, ai marosi della disperazione, della noia, del nulla.

C’è solo un lucido vuoto, un’ansia perenne di accostarmi a qualcuno. Parlare ed ascoltare sussurri umani.
Ma ancora da nessuno ho appreso apprensioni umane. Invano ascolto parole di uomini. Sono sinceri almeno con se stessi?
Forse mi sbaglio. C’è una tale vita in ogni cosa, un tale fervore, che rimango affascinato e, da questa mia finestra, vedo dipanarsi la vita in tutte le sue più intime e piccole manifestazioni.
Forse la sincerità è qui…

(da un vecchio diario)

 

II

E c’era anche la realtà dell’amore, questa ridda di confuse tenerezze, questo guardarsi allo specchio per dirsi una parola all’orecchio, tra il patetico e il vezzoso, questo gridare alle strade, ai fanali, all’insegne tiepide delle vetrine serali, un dolce rossore fatto di malinconia, rimpianto, e di felicità svagata, rappresa nel gesto e nella parola.
C’era una realtà che occorreva affrontare e risolvere, tra le mille altre realtà, dure spietate, come il sangue bollente degli uomini, tra le mille cose ostili e bugiarde, c’era una realtà che, eterna e vera, di continuo, limpidamente, si riproponeva all’uomo, leggenda o fiaba, nel paesaggio di sempre, spiaggia collina fiume geranio: un tenerissimo colloquio — tentato e giocato — con l’altra, inconoscibile, parte della barricata.

III

È tutto un lungo, spietato canto
di cicale, alle Cascine, a mezzodì,
sotto il fogliame dispongono tovaglie
i forestieri con i calzoni corti.

L’Arno è pigro come agnello bastonato,
l’acqua gialla s’insabbia tra i cespugli
carezzando sponde grigie d’isolotti
con radi ciuffi e malta screpolata.

Dal verde cupo, argenteo, olivastro,
dalle sfumature vive, sfaccettate,
dal verde a spruzzo, affastellato nei viali,
traspare il sole furibondo pesciolino.

Fanciulla tutta luce, sfacciata primavera,
il prato s’addormenta con la bocca accesa,
innamorata, fresca, acerba primavera…

IV

Sapevo che ormai l’avrei rivista, tra pochi giorni. Era l’amore che mi veniva incontro, un atteso e crudele schiaffo, a primavera. Ora ero lì, sulla balaustra di ferro, al Piazzale Michelangelo, e lasciavo l’occhio indugiare su quella bacinella di case, cupole, campanili, su Firenze inondata dal tramonto. Erano molti mesi che andavo pensando a lei, alla fanciulla dagli occhi larghi e malinconici, che giungeva di lontano, d’oltre oceano, accesa e spettinata, alla fanciulla che più d’ogni altra sapeva togliermi dal labbro l’eterna frase banale : « Ti voglio bene, t’amo, senza di te non potrei mai vivere ».
E cosa avevo lì, appoggiato alla ringhiera? Stelle, un leggero venticello che giocava sul mio volto, un nugolo di fanciulli ruzzolanti dietro una palla di gomma, una città, tonda rosea gota in muratura, che cercava il senso delle mie parole.
Avrei saputo, a quell’ora, al crepuscolo, in quel luogo, con l’animo teso verso il sorriso di lei, avrei saputo mai cogliere il messaggio che Firenze m’inviava ?
S’accese, all’improvviso, una finestra, di tramonto, sulla collina di Fiesole, tremolante, candela per grazia ricevuta sulla vallata d’Arno: un’altra luce, era il sole che, prima di partire, sprizzava lucciole sui vetri, alle finestre, sui balconi, nell’aria dei colli, disposti a collare, cinturino dell’orafo fino…
E l’Arno era rosso come labbra carnose di fanciulla sedicenne, sotto ponte Vecchio il rosa svaniva in grigio, in viola, e il chiarore si sperdeva lungo il fiume verso la curva folta delle Cascine…
E così avrei lasciato la mia solitudine. Avevo paura, mi preferivo solo, a contemplare tramonti e cupole, qualcuno, ora, cercava d’invadere la mia segreta armonia, di comunione, con le cose.
Sapevo che ormai l’avrei rivista, tra pochi giorni; per questo le finestre accese dal rosa vespertino, il fiume sempre più pallido, e le grida lontane e attutite dei fanciulli, mi giungevano come un addio, come un fazzoletto sbandierato alla stazione, a chi parte colmo di rimpianto…

V

Il viale dei Colli, collare di piume
al mio giubbetto sulle spalle rosse,
un arco scuro teso sopra il cielo,
per coprire un altro cielo
che si gingilla nella terra gialla:
i motoscooters dannandosi scoppiettano
per la collina che sale alla terrazza,
piccione, autobus, geranio, bisciato
murettino, cipressi e ciclamini
per San Leonardo, strada dei pittori,

docile e mia…

VI

Anche se tu arrivassi oggi, in questo momento, e mi gettassi le braccia al collo, anche se tu fossi ora, qui, tra le mie braccia, nulla saprei dirti del tuo, del mio, del nostro amore.
Tutte le cose più belle, alle volte, sperate, sognate al capezzale nell’identica maniera con cui si vegliano i malati e i moribondi, le cose attese al loro realizzarsi esplodono come razzi di segnalazione.
Un fiore rosso, azzurro o giallo, che si sfionda nel cielo, marca nel cristallino cielo la sua presenza e sfiorisce con il vezzo dell’agnellino che si getta nel grembo dell’agnella madre.
Penso alle stagioni fresche, frizzanti nel volto e puntigliose nella loro rigida secchezza, penso a questa mia condizione incerta, sghemba, alle cose così vicine, a portata di mano: ecco l’insetto capriccioso sulla siepe, lo sciame dei moscerini velo agli occhi illudente, la panchina verde e scrostata all’angolo delparco, vicino al monumento dell’Indiano, là dove i! fiume trova confluenza con l’altro esile e scarno ruscello, il Mugnone.
Ecco, queste le mie cose presenti, le mie cose, in torno alle braccia, alle gambe, questi frutti che si legano al mio tronco quasi per un innesto di vivo germogliare. E tu sei il mio amore: potessi, come ora, non sciupare quegli attimi luminescenti, potessi coltivare in me quell’idea semplice, l’amore-costruzione, d’una piramide di marmo nel cuore terrificato, e dirti che possiamo aspettare, pazienti come sempre, nell’attesa d’una grazia inaspettata…

VII

La mia malinconia è sola
e frastornata, la cicala,
il ragno, il fiore del geranio,
la mosca pazzerella, di pigrizia
verdi e di lamenti…

Cammina la fanciulla lungo
l’Arno con il collo di gazzella,
tra Cascine scoppiettanti, un moscerino
solletica le gote, mielate,
e l’acqua stagna
colorandosi di case proletarie.

VIII

Calciando una ad una le pietruzze ai bordi del marciapiede, lungo l’Affrico, al meriggio, le grida, lo strepito dei tram e biciclette, l’ammucchiarsi al passaggio a livello di ciclisti al lavoro, sudati, era una prima risposta al mio chiedermi amore.
La luce così limpida, secca, del sole a capofitto sui bidoni squarciati lungo le sponde esigue del fiumi-cello, e la scia dei ponti, ponticelli, quel mio zig-zagare tra l’Affrico e la strada, a rischio di macchine veloci tra le gambe, quest’andare senza meta…
Come potrei rispondere ad un’immagine dell’amore, questo non sapere, non volere, non credere… cos’era questo mio dolcissimo, scampanellatissimo amore, se non una rima con cuore, dolore, fiore, ardore, rossore, questo vocalizzo in ore, in ore, in ore sempre più inconcludenti e monotone?
Sapevo una strada, un ruscello, una massa di gentea correre e strepere, sapevo i miei passi, tra i sassi, la sporcizia arroventata delle foglie cadute dagli alberi, secche, sapevo che l’Affrico era nulla, non più che un tenuissimo nome da leggenda, fiaba, e che forse non avrei più compreso il significato di quell’ondeggiante movimento, di quell’agire senza fine.
Una fanciulla come torre, lassù sul piazzale, tra il verde dei colli, cupo, un inutile ma decantato colloquio per ripeterci ancora che serviamo l’un l’altro a qualche fuggevole, smemoratissima cosa…

IX

Tra poco sorgerà la luna dietro
il monte e sul piazzale brillerà
come fanale abbandonato, è ancora
rosa il cielo, gota offerta all’offesa
dell’amore, e lungo l’Affrico
grideranno i ragazzetti spettinati
correndo in biciclette prese a nolo.

La giostra gira intorno al ponticello,
l’Affrico è secco, giallastro, affogato:
cespugli, cartacce, l’acqua è quella
degli scoli, delle fogne, delle orine…

e cantano fanciulle alle finestre, ora
nell’aria tiepida dell’Affrico notturno.

X

L’aviere ha sollevato la stanga che sbarra il cancello e lascia passare le donne con la cesta delle uova. Dagli alberi sopra le scuderie, verso l’Indiano, traspare sempre più intenso, più luminoso, il colore fresco dell’alba alle Cascine.
Stormiscono le foglie come nugolo di bambini sbuccianti caramelle ed escono i fantini, azzurri, gialli, verdi e ciclamino, ad allenarsi, per i viali, vialetti, lungo il fiume, sopra cavalli lucidi e nervosi come pulci ubriacate…
Al corpo di guardia cominciano a pulire, con le scope, con le pompe, e la radio diffonde le solite latti-scenti canzonette da festival : Scuola di Guerra Aerea, gl’inservienti entrano marcando l’ingresso nel lavoro all’orologio. Con la fascia azzurra, sghemba sul mio petto, la pistola, il cinturone, in servizio, seduto al muro con la mano sotto il mento, ed il gomito al ginocchio, eccomi, io qui, pigro, tra queste cose, inerte,nel trotto lontano del cavallo allenato, tra Tesilissime voci dei ragazzi portati a villeggiare sotto gli alberi
del parco…
Firenze, fanciulla col nastro tra i capelli, per l’azzurro che si tinge d’amaranto, cara, leggiadra, sguardo innamorato, amor sì dolce mi si fa sentire…

XI

Sullo spiazzale dell’alza bandiera
le aiole traboccano di fiori,
sull’azzurro, esilissimo pennone, due
stendardi, del comandante e della
patria, l’ufficiale di picchetto
gironzola svagato, guarda
il cielo coprirsi di rossetto,
nuvole croccanti come sfilatali.

XII

Il picchetto armato con i mitra era schierato, di lato al cancello, verso le Cascine, due carabinieri impiumati salutavano tesi ed impassibili, quando arrivò il generale, in divisa bianca, con il cappello sollevato sulla nuca, e la tromba diede il segnale — a perdifiato, al comando del picchetto armato, mi gettai ad urlare: «At-tenti! Presentat-Arm! ».
E poi aspettai che passassero i generali, con la mano sulla, visiera, in rassegna al plotone disteso sul saluto come donna sulla spiaggia in attesa dell’uomo, e quando passarono, di nuovo : « Fianc-Arm ! Ri-poso ! »
Qualcuno avrebbe potuto dire : « Che strano, vedi, quello lì, ingibernato, stretto nel giubbetto come cavallino da galoppo, è Franco, uno che si dice poeta, è innamorato, sai, d’una fanciulla americana, molto carina, ma, non sembra più lui, guarda cosa è costretto a fare… ».Sul pennone è salita l’insegna di comando dell’ufficiale generale di grado superiore, tutta la schiera degli aiutanti, dei segretari, degli attendenti e dei ruffiani, è scomparsa verso il circolo, dove sorbiranno il caffè in bianchissime tazze di porcellana cecoslovacca.
E tutto per il momento è andato bene.
Sul piazzale dell’alza bandiera, tra le aiole rosse, verdi, gialle, curate e profumate come drappo per letto nuziale, non c’è più nessuno.
L’ufficiale subalterno riaccompagna gli avieri al casermone, cadenzando lentamente canticchiano sottovoce, ogni tanto perdendo il passo, strascicanti; e il giardiniere in tuta, sbucando fuori dal muretto rosa, fa capolino, si guarda intorno spaurito, da bandito, e venendomi incontro, sgranando ancora gli occhi, mi chiede se può tornare ad inaffiar i suoi fiori.

XIII

Avvenne alla stazione, un lumicino
rosso che s’accese in fondo
al marciapiede, un correre
d’uomini con carrelli, cinghie
al collo, ed ero ai respingenti
ad aspettare il treno da Parigi…

XIV

Conosco di te, ora, così poco
che cerco di far filtrare
in questa fragile dolcezza
un lembo del cielo carico,
di troppo ardore, fiorentino;

maggio strepitoso, con le nuvole
tonde come palloncini colorati,
si stempera in odori, di biade
carrozze, di sellai con gli arnesi
nel vicolo dispersi sul selciato.

E come mi torna più consueto
il ripido salire delle tue strade
che vanno per la collina di mimosa,
il Giramonte, Giramontino,
quelle curve infestonate di gerani;

ciuffi d’erba si sporgono dai muri
e le stradine, a precipizio di là
Pian dei Giullari, lasciano
crescere selvaggio il biancospino
lungo recinti, su striscie di terra:

Firenze, come un sogno, una distesa
che consuma quel poco di candore
che si rifa gettandosi sui lecci, gli olmi,
in questi vialoni cupi alle Cascine,
una leggenda aperta sopra i colli.

La nostra è una storia senza fine,
che fiorisce con il mare, con la curva
tenerella delle boscaglie sopra Fiesole,
con i ciuffetti di cipressi a Settignano,
una storia di ninfe a primavera.

Ma t’amo, ti conosco?
Penso ai gelsomini del tuo letto,
alla fragola sulla tua bocca accesa,
e mi distendo nell’indifesa meraviglia
del tuo corpo paesaggio in fiore.

XV

A Settignano volevo accarezzare i pini: in terra c’era una distesa sottile, odorosa, d’aghetti marroni, in punta affilati come stiletto d’offesa. Si saliva per un arduo sentiero, ineguale, disagevole, ed io ti raccontavo dell’aria, dei cespugli, della chiesa, al cimitero, trapunta di lumini: ti raccontavo la storia delle cose.
Ma in me c’era la più sottile insidia di saperti solo mia, di carezzare, possedere il tuo corpo. Un banale desiderio che, a vent’anni, s’insinua in ogni piega, tra le ciglia, gli occhi, la curva delle tasche.
E tu mi dicevi : « Bello, bello, è tutto bello », con quel dolcissimo sfumare inglese le nostre doppie consonanti, quella difficile pronunzia del verbo « è », che non ti riusciva d’accentare.
« Correggimi, ti prego, correggimi quando io sbaglio, please, Franco, please … ».
E avevo paura a stringerti la mano.
Il nostro incontro era stato acceso, come lampione al tramonto per via, era stato acceso d’un tratto, rendendo le cose lontane e distratte, più pallide ora, più dolci nel balbettìo d’uscire dal buio. Così anche noi : timorosi di guardarci negli occhi.
In cima al poggio sconfinavano le vigne cariche d’uva nera, fragolina, e Firenze s’intravedeva a spicchio, un’arancia sanguinella sulla tavola imbandita.
Il contadino, ai bordi della strada, fumava la pipa, intento a sorvegliare le sue viti, e c’era un cacciatore che raspava in terra, sotto terra, con una vanghetta, esile e puntuta.
Firenze era calda, nell’aria.
A Settignano giungeva, su quell’altura, un fresco venticello e sulla lingua c’era profumo di boschi e di pinete.

XVI

Alla fanciulla seduta sull’argine
un colpo di vento solleva i capelli,
nell’Arno pagliuzze di terra e di paglia
s’azzuffano nel vortice grigio.

« Com’è strano in quest’aria d’albicocca
marcare il fine di stagione, vedi,
anche il tram sul ponte San Niccolo
sferraglia rapido come ladro mattutino. »

II mandorlo, la siepe, l’arido cespuglio,
non si rubano parole, a primavera,
nel mio, qui nel grande gaudio mio,
nel mio sdraiarmi al sole tutto mio,
la fanciulla è cielo, erba, formica
benedetta col chicco sulla bocca,
tra canotti rossi-gialli rovesciati
in quest’aria tenerella d’albicocca.

XVII

Oh, il nostro pic-nic a Vallombrosa!
Eri seduta sull’erba, con la tovaglia che t’accendeva lo sguardo, sotto i pini, gli abeti, tutti gli albe-retti piantati tenendosi per mano come fanciulli sbarazzini.
C’era tanto sole, e sorridevi, e dalla sporta, lentamente, uno ad uno, tiravo fuori pacchi e pacchetti: pollo arrosto, patate fritte, prosciutto cotto, formaggio pecorino, un fiaschette di Chianti, due bicchierini di cartone, e sorridevi, e poi due forchettine, e sorridevi, sorridevi sempre, alzando contro l’azzur-rissimo cielo il rosso del vino che tingeva le tue mani, e sorridevi, con quella bocca sfumata appena di rossetto, un rosa tenero Paris. ..
Eravamo sulla leggera pianura che s’apre prima della strada, nel folto degli alberi, e lo stradino che scendeva dal colle smanioso di chiome verdi arruffate, sembrava scivolare a precipizio in un nugolo di sassi, malta e tronchetti sradicati.S’intravedeva, per un’apertura di rami, una vasta vallata, luminosa, un acquario acceso da mille riflettori, con le case al fondo, smarritissime, un cipresso piantato a sentinella, e colline, collinette, poggi.
E su quel riquadro d’erba, con tovaglia limpidissima, tu sorridevi, sempre, felice, libera, sicura di te stessa, nel sole furibondo.
E m’alzai, acceso, cercando di prenderti la mano, ma più agile t’alzasti vorticosa, e scalza, via, per il bosco tutto pini, sopra il greto d’aghetti e foglioline, via, di corsa, al vento, puledro scatenato…
E ti rincorsi, urlando il nome tuo, e fuggivi, ti nascondevi dietro i tronchi, i cespugli di more e ginepri, facevi capolino dalle tane delle lepri.
E quando ormai disperavo ritrovarti, prenderti la mano, d’indugiarmi nella stretta del tuo polso, ecco, la tua voce, lontana, lontanissima, sperduta nel sipario favoloso delle piante e dell’azzurro, chiamare il nome mio. E ti risposi, perdutamente, dicendo « Miki ! » agli alberi, formiche, sassi, tortore e ruscelli, « Miki! » gettato in aria per prendere l’abbrivo.
« Franco … Miki… Miki… Franco .. ! » due nomi che s’inseguivano, s’alzavano nell’eco che d’intorno s’allargava a larghe falde, aquiloni gonfi, giallo ciclamino, a Vallombrosa, nel cielo chiaro.

XVIII

La distanza e l’altezza delle valli
è colmata dal riflesso dell’azzurro,
del cielo in terra, per le boscaglie
che s’addensano intrecciate a Vallombrosa,
e ruscellanti acque chiare di montagna
insinuarsi tra gli sterpi arroventati.

Sereno il verde squillantissimo
in discesa verso sperduti casolari,
con il profilo netto delle cime viola
stemperandosi in rossori delicati,
all’orizzonte, falchi a giro tondo
svolazzare limpidissimo silenzio.

XIX

Avvenne un pomeriggio di settembre, al primo meriggiare, al sole che s’infrange nelle vasche e nei giardini e aguzza l’ali a stormi di piccioni, in Santa Maria Novella.
L’aspettavo, pensieroso, all’ombra degli altari, alla luce pazzerella in pioggia da vetrate d’amaranto… E le donne del Ghirlandaio se ne stavano sui muri a porger canestri e tessuti damascati, erette, con il profilo argenteo e lo sguardo tenerello, i capelli biondo-cenere raccolti sulla nuca.
Trascorso era già il tempo del nostro appuntamento e tu non arrivavi; ed ero a rimirar gli altari, le vetrate, il crocifisso pallido del Masaccio inquieto, e alta era la chiesa, con un chiaror pungente che penetrava negli angoli remoti, accendeva il labbro delle vecchie genuflesse.
Forse quest’oggi non t’avrei parlato, avrei dimenticato la tua sembianza labile e leggera, i tuoi sorrisi smorzati tra le labbra per paura di parlare, di non saper spiegare il moto d’entusiasmo che ti saliva in gola… Oh cara, quanto per me in quell’attimo contava la tua presenza, umile e discreta, dipanata negli scatti delle mani, nel rapido girar d’occhi al mio complimento…
Uscito nella piazza, con il violento spruzzo di sole in viso, tutto bianco, rimasi, splendente, per un attimo abbagliato, e cominciai a distinguere le cose :

Intorno alla vasca, nell’aiola tonda,
c’erano i piccioni, quieti, appisolati,
qualche ragazzo gettava mollichelle
e s’alzavano i piccioni sbattendo
l’ali, a tamburello, uno, poi l’altro,
un gruppo insieme, frastagliato,
in giro per la piazza, sugli
autobus e sui tram al capolinea,
sugli operai con le borse al braccio,
e bimbi intenti ai loro giochi…

Ero certo che non saresti venuta, più inutile questa mia attesa, e di continuo volgevo gli occhi, ora al volo ritmato dei piccioni, che salivano nel cielo della piazza, scendevano a due, a tre, a stornelli, nell’aiole, e giostravano impazziti, ora ai bambini urlanti dietro un cagnetto nero, sull’altr’aiola, in festa, a carezzarlo… E fu come uno squillo d’adunata, quando sbucar da via della Scala una fanciulla rossa intravidi avvicinarsi, col volo lieve dei fanciulli e dei piccioni.

XX

Scompigliami i capelli, se ne hai voglia, apriti nella rugiada del ruscello, fresco come letto d’insalata, e cerca con l’occhio spaurito la Certosa che si copre d’amaranto. La Greve, qui, è strozzata dalla malta, si curva con la grazia d’una biscia punzecchiata, c’è un poggetto scarno, nudo, pietra e roccia grigia, con quattro scardinati pini : dietro il ponticello, sul rimasuglio di muschio e verde acquetta, un pescatore agita la canna stemperando vermi a più non posso. Ecco la moto che balza sopra il ponte, e fugge verso un paese chiamato San Cristoforo…
« Amore, amore, tutto amore, sdolcinato amore, sai dire soltanto questo, un bacio, tenerezza, sai fare soltanto questo, una carezza, amore, amore, sconquassato amore. »
« Perché mi parli con questo tono ? Ora è la sera, con le campane nascoste sotto gli alberi, con il frate che svanghetta dentro l’orto, con il contadino che bestemmia contro il mondo, cos’è questa tua discordia, questo tuo duro muso al rosa del mio amore ? » È umido, è freddo sul greto della Greve, un lumicino s’accende sulla strada, alla Certosa del Gal-luzzo i certosini ora leggono il breviario e mangiano verdura, sul monte strilla la civetta: scompigliami i capelli, se ne hai voglia, e lasciami sul labbro un segno d’eterna simpatia.

XXI

Io voglio dirti d’una favola
come d’una tiepida scampagnata
sulle prode alle Cascine,
queste plaghe di deserta luce
ondulata sui labbri erbosi delle nubi:

la giovinezza, ecco, la mia
la tua, la nostra giovinezza,
oltre il cielo, il mare, oltre
la terra sconfinata di melodico
piacere, questo gridarti ancora
un guizzo d’assoluta tenerezza,
l’Affrico incantato, con le sponde
coperte di canzoni, profumi,
barattoli slabbrati, bianco rivo
incastrato tra le canne cittadine.

Puoi chiamarlo amore, e per sempre
diranno amore, come cielo, bocca,
sole, che dirada il verde dei cipressi,
qui sperduto tra le cose che risalgono
nella bruma, grigia,
fitta, dolcissima Fiorenza inargentata,
diranno, azzurra e sempre, la mia
lunghissima allegrìa …

 

Firenze, alle Cascine, Primavera 1957