I

Qui attendo che il mio sangue si faccia
pianta, rena, fontana e fogna.

Lascerò ancora scarpe nei giorni piovosi
riempirsi d’acqua dentro pozzanghere,
lascerò ancora il cuore
tra liti e amori
risate e pianti
nascite e morti.

Sono ormai per sempre anch’io
attaccato con un chiodo ad un cancello
su cui è scritto: «Via Etruria, 44».

II

II portone di legno nero, la fontana
rettangolare senza un filo d’acqua
che prima aveva due tartarughe in cima
a due pilastri, l’arco scorticato,
la fontana rotonda, grande
(una volta con i pesci rossi),
le aiuole lunghe e strette con i fiori
e l’erba incolta, i cancelli verdi
che danno sulla strada con i lampioni curvi.

Qui sono cresciuto sano e felice.
Questo è il mio paese
dove uomini piangono e ridono, in silenzio,
con occhi rivolti ad angoli di cielo.
Se perdo queste cose lascio la mia vita
smemorarsi. Qui solo è verità.

III

Non c’è fiore non c’è vaso
sul davanzale di questa finestra.
Con i gomiti chiusi tra due mura
mi rimane il cortile
da vedere. È bianco,
fresco di luna,
e chi passa
muove i suoi passi
picchi soli
in queste sere così calde.
E rimango a osservare le ombre
che muoiono sul selciato
e la fontana
che sciacqua e lagna
la sua interminabile
pena.

IV

Tutta in queste pietre la nostra passione.
Son grigie, spaccate, ammucchiate in un angolo.
E quando giunge sera, le cose sono anch’esse
mani che crescono dalle siepi secche,
dalla terra che odora di passi.

Le finestre sono aperte. Nessun vento
ha sbattuto le uguali persiane.
In quel verde, pensieri d’evadere,
desiderio di passare l’arco e ritrovarsi
nella strada di tutti.
Qui non siamo di noi stessi.
Un soffio è come un giunco
che cresce tra le nevi.
Son troppo esili questi soffi.
Se te ne vai per questi cortili
qualcuno, vedi, cerca l’intatto.

Troppa speme nei rami dell’albero
curvo. Non sappiamo
che quando si nasce per essere tristi
anche la luce è manciata di gelo.
Rabbrividisce chi si sente in petto.

«Abbiamo sbagliato » ripetono
ancora le porte della nostra
gioventù. Son chiuse, serrate
come cancelli contorti,
ma tutta una vita.
Non t’azzardare ad evadere. Vedresti
il cielo racchiuso tra mura, come un fiume
da mille pesci acceso. Tutto
è attesa strozzata tra dita,
è pianto che tramuta le risa in sarcasmo.
Se cerchi un amico lo trovi seduto
in un cantone, vicino alle fogne.
Timido è amico. Seduti nella più lesta
ala di strada i miseri battono i denti.
Non li guardare, vedresti te stesso.
Per questo la notte quante macchie rosse
conti nell’aria, tante piaghe
messe a riposare.

Non ti chiedere il ricordo della tua
infanzia. È qui,
su queste quattro mura raschiate e sbiadite,
su questi alberi che attendono il potatore
da anni, che mai verrà.
                                Se non ti trovi
guarda quei fantocci bianchi
posti ad asciugare, fuori
nel vuoto.

V

Ho strappato dai tuoi bianchi capelli
la sola ciocca nera, mamma,
e tardi si sveglia il pianto in me, per narrarti
tristi storie di briganti annidati nel cuore.
In queste ore d’afa, quando il cortile s’arrende
al vento polveroso che sale dal muretto calcinato,
tu dormi all’ombra dei miei sogni, e tardi
giunge il grido del portiere furioso con i bimbi,
tardi giunge la pena dell’aiuola devastata
dal carro muratore. L’attesa che seguirà
la siesta del pomeriggio arso si colorerà
di nera seppia, precipiterà coi fondi del caffè
nella caffettiera sghemba sul fornello.
Tutto qui il richiamo delle cose
una radio rimane accesa per seminare
nell’aria polline di note — e le cose
si fanno scure, lontane dal sole

che furibondo le insegue con il fuoco
sotto i tacchi. E s’ancora la vita quotidiana
sul molo delle labbra.
                              Oggi la morte
s’è fatta palla di silenzio per i bimbi
e le bambine seduti sui bordi dell’aiuola
a contare le persone del corteo. Il funerale
è dilagato poi come nafta
in tutti i loro giuochi strepitosi.

Malinconia apre sentieri tra il tuo prato
e il mio, madre, e tu falcia lo strame
che ubriaca il pettirosso, brucia l’erba
che offusca il lineare cammino della formica.
Sono di fango oggi, madre, e prendimi
tra le tue dita e fammi vaso
miniato dall’angelo buono.

Vorrei dirti, ora che nulla rimane
nella bisaccia dell’odio,
quanta dolce preghiera effondi
con la presenza degli occhi,
con l’ingenua vela del tuo sorriso
rassegnato al cigolare stridulo
di cardini ròsi da ruggine.

Rimani tu sola al soggiorno indolente
della mia giovinezza, rimane il tuo volto
al grigio spennarsi della mia primavera.
Poi verranno col filo di ferro a chiudere
pezzi di terra e piantar girasoli
sul quadrato superstite. Le mie
mani e le mie gambe germoglieranno
coi fiori dell’aiuola, i miei capelli
si faranno tiepidi al vento degli alberi.

E tu qui, con la tua gioia carnale, ti sperderai
nelle rosee dita dei bimbi, nel bisbiglìo sommesso
delle donne spettinate, nell’unta camicia
dell’uomo ferroviere. Nel marmo
portone fontana recinto e cemento.

E tu sarai rassegnatanella disperata mia
solitudine, o madre di povere cose.

VI

Se in te ogni giorno muore una
vita, quante ad amarsi più rapide
nel tuo paese incontri vite disperse?
Solo ti basta quel furioso baccano
del portiere con la pompa che spruzza,
solo ti basta quel pianto arrendevole
del fanciullo caduto dal muro che chiude
il recinto. Per benedire una vita
più ricca e più vera.

VII

Torna maggio con la luce sfocata dei meriggi
e nei cantoni ruzzola dimentica
la palla di stracci dei ragazzi.
File di formiche riprendono il cammino
sui bordi grigi dell’aiuole
e la fontana muta in ambra
lo spruzzo ballerino d’acquerugiola.
Salgono al cielo fiorito di maggio
azzurre infantili fumate da vulcani
di sabbia.
                           Tutto
ritorna stasera per te
con le ciglia dischiuse del cuore,
ma tu sei sempre lontana.

Rimangono poche cose
nel recinto disfatto.

Un barattolo vuoto, con sporca
vernice rappresa sul labbro rotondo,
riposa tra sterpi, sghembo alla luna
che ride, stasera.

VIII

È partita l’ansia di saperti vicina
e ora torno a piangere sulle crepe del muro
lasciate marcire in attesa di calce.
La nostra conquista andava cullata
col sapore degli anni maturi
e tu, ladra di sogni, mi lasci
stracci attaccati alla porta, sangue
di bimbi feriti col filo spinato
sentinella all’aiuola.
Di te rimane il rimorso del cieco
mio vagare tra povera gente.
Distolto dal mondo che soffre d’amore
per il tuo amore fatto di bizze.

IX

È deserto oggi il cortile, senza bimbi
nessuna voce s’alza più alta dal fondo
di cemento e terra battuta. Giornata arsa
questa, con le pareti dei palazzi colorate di sole
e il vento che come calda mano di fanciulla
amorosa va frusciando tra le pieghe delle persiane
accostate. E tutto oggi mi parla d’amore.

Sembra che le cose distese nel loro sonno
di silenzio s’acquetino nella melodia della radio,
e che le donne, i venditori di sedie, di piatti
e di scope, le ragazze con i panni in mano
alla finestra, ripetano tra loro
il malinconico ritornello degli anni perduti.

X

Si sperde stasera la luna
sulle foglie dell’albero grande,
delira stanotte la luna
nella mia stanza letto nuziale
ai pallidi e muti amori di luce.
Vola il suo bianco messaggio
al chioccolìo della fontana
che si consola da sola.

Domani al morire di te, luna
amorosa, i bimbi verranno
con le mani interrate a strappare
coriandoli sulle tue spoglie,
e nei cortili gazzarra di voci
mischierà il canto dell’albero
al lamentìo di fontana.

XI

Trastullo ai ragazzi in perenne fatica di giuochi
sei tu, mia fontanella di marmo a forma
di fascio, e ricordo d’un tempo lontano
nei cuori. Ormai divenuta sei
il bianco refrigerio a case immerse nel sole.

Qui l’estate cantano i grilli tra l’erbe
superstiti del giardino, e la sperduta cicala
si strazia nel folto dell’unico albero verde.
Tu sola, fontana dei miei giorni felici,
sei cosa goduta, presente
nel desiderio di povera gente. Tutte le altre
cose care al mio cuore, vedi, vanno morendo
mutando in gran fretta sotto i colpi del tempo.

Rimani tu sola, col tuo lamento sconnesso
nel fuoco smanioso d’estate.

XII

Hanno distrutto i recinti di tufo
con le lastre bianche di marmo,
e il piccone è caduto lentamente
colpo dopo colpo, e il nostro cuore
sanguinava ad ogni colpo. Le pietre
sono ora ammucchiate al centro del cortile,
sparse un po’ dappertutto.
                                                   Vengono
i ragazzi a giocarci sopra, ridenti
inconsapevoli che ogni pietra è una nostra
gioia, una nostra illusione.

Anche questi detriti sporchi senza alcun
valore sono i segni dell’infanzia,
bruciata tra queste mura di palazzi
ogni giorno di- più vecchie e sbiadite.
E restiamo a guardare impietriti la lenta
distruzione del tempo e degli uomini,
rassegnati.

XIII

E io che cerco di ritrovarmi sempre
nei luoghi più cari e più tristi
di questo cortile, m’accorgo allora
d’essere solo, come uccello in notte
di tempesta, lasciato a cantare
sul ramo più folto.
                               C’è sempre
una disperazione per l’animo
chiuso nel guscio.

XIV

E perché debbo rimanere schiantato
dall’angoscia del peccato?
Perché debbo piegarmi a raccogliere
il fumo delle mie giornate?
Passano le ore come stanchi cavalli,
che tirano carichi di legna
e blocchi di marmi massicci.
Dentro di me porto solitudine,
il solo pianto dell’uomo vinto dal dolore.
E se potessi abbracciare il fanciullo
felice del suo triciclo ammaccato,
e potessi baciare la ragazza desiosa d’amore!
Tutto, ripeto a me stesso codardo,
è fatto di amore, aspetta
il tuo viso sporgersi all’alba.
Il sole tramonta dietro il palazzo
che si arrende arancione al suo rossore
violento, e all’alba le rondini impazziscono
d’aria e di spazio, tanto è deserto ogni davanzale.

XV

Dilaga il sole nei cortili caldi
di primo pomeriggio,
e soffio di vento non si leva
sulle foglie inerti.
Raro qualche ferroviere
torna sudato alle case ombrose,
e la fontana è un richiamo
d’altre stagioni.

XVI

Quanto sole nel mio cortile, negli
angoli del mio cantante palazzo!
È domenica e in queste giornate
chiare di giugno la vita si somma, una
ad una ogni cosa si fonde nella gioia.
Screzi d’ombra svaniscono in luce
dilagante, in note sonore
che percorrono aperti spazi al ritmo
d’una corsa sfrenata di fanciulli.

Dolore sei vago e indeciso quest’oggi,
sei una grazia svenevole nelle mani
dei piccoli che impastano terra con acqua.

XVII

II sole è a picco sulle case.

« E anche questa chiara giornata di giugno
sarà bruciata come quel mucchio di carta
nell’angolo del cortile. E verranno
i ragazzi ad accendere torce, il portiere
con la posta bianca tra le mani
e verrà la sera. Con la sua dolce
estenuante malinconia ».

XVIII

E solo voi sapete, miei vasi d’erba grassa
lasciati a riposare sul bianco davanzale,
quanti tristi sogni s’avvolgono nel giro
dei miei sguardi, quante parole
d’amore scendono piano
sul tenero pianto delle cose.
C’è in questi luoghi di grida e di trastulli
tanta nostalgia delle passate ore,
che la notte giocano gli alberi
con la luce velata di luna.

Le foglie guardano il cielo
e contano stelle, per tornare come bambini
nel loro tacito giuoco serale.

XIX

… bambini, mamme, canzoni nell’aria
operai alla finestra, fidanzati con le mani
allacciate, felicità…

mie quotidiane e disperate conquiste!

XX

Nei pomeriggi chiari d’inverno
brilla di sole terso come ghiaccio
il cortile con le aiuole,
luccicano sassi sparpagliati
sulla rena e naviga
la foglia dentro la pozzanghera
tonda come un’ostia.

XXI

Non udirti passare tra le fughe dei fanciulli
mascherati, questo vorrei ora che il giorno
lentamente brucia tutta l’ansia della sera.

Rimarremo inerti con le luci delle fiaccole
disperse nell’aria fulminata,
rimarremo soli col soffio della luna,
pallido su vive spoglie di coriandoli.

XXII

Non cercare lume pallido di luna,
non cercare stridula luce
di sole accecante. Non
cantare il lamento del cuore ebbro
di stizza amorosa
vanamente presuntuosa.
Ascolta il cuore, stretto in una morsa
d’acciaio, che parla agli uomini
e alle loro malvagie ingiustizie.
                                              Invano
va piangendo la pena di poveri
di sopraffatti, di onesti. Poesia
è morta, poesia oggi
è dolore, cosa vana
per la superbia del mondo.

XXIII

…e dì, a voce alta,
spargendo a piene mani
miglio a uccelli sul davanzale accorsi,
che tutto al mondo degno è
d’essere cantato. Tutto compare
con la fronte d’oro nel momento
dell’addio supremo.
                                 Un’umana
debolezza, allora, si struggerà
e lentamente udremo lontanarsi
dall’orecchio l’ultimo grido
della rondine, rapida sui fiori
del prato, a primavera.

XXIV

Trovami la sabbia molle dove le mani
affondavo un tempo, trovami gli alberi
striscianti sul muro, protesi nel cortile
forestiero, trovami sassi, fontane
e aiuole. Trovami i gridi
lungamente spersi in questi prati
d’odio e amore, trovami la vita
tradita tra i cantoni,
e tornerò dolcemente amico
delle tue parole passeggere.

XXV

E come ripenso al mio perduto bene,
alle mie infantili incursioni sul terrazzo
sparso di tegole infrante,
ritorna tutto un mondo di smarrimenti
e illusioni. Mancava al viver nostro
l’attimo sperduto nella nebbia,
e sorgeva con l’incanto tiepido del sole
il sapore dell’erba mattutina e sorbe
libere su rami dondolanti in faccia al lago.
C’era il tuo volto liscio, mamma,
i tuoi neri capelli specchio paziente
alla luce dell’alba. C’era il tuo placido
consenso alle nostre furiose partite
di calcio sul prato.
Mutano aspetto i luoghi del ricordo
senza un lamento, senza un addio.
Nel mondo continua a vagare Quell’ansia
dolente di pane quotidiano, quel tacito in noi
morire di cose più umane.
                               E se canta interminabile
il grillo nell’aiuola, se sciacqua la fontana
la sua pena di sempre, ebbro uniremo il grido
anche noi di speranza, e attenderemo che sia
sopra ogni lutto e dolore, la vera vita di terra.