Il cinema nasce con intenti documentaristici, come dimostrano i primi cortometraggi dei fratelli Lumiere in Francia o di James Williamson in Gran Bretagna. Pertanto le origini del cinema già contengono in sé l’idea di documentario e con essa la riflessione sulla funzione sociale e culturale da attribuire al nuovo mezzo. In particolar modo alcuni specialisti del settore consideravano l’apparecchio cinematografico come un procedimento tecnico perfetto per conservare e archiviare le attività culturali, le scoperte scientifiche o quanto meno come strumento d’indagine giornalistica e storica. Sul versante opposto, invece, Georges Melies, e successivamente i cineasti americani, come Edwin Porter, inventeranno  rispettivamente il cinema fantastico e quello drammatico spettacolare.
Quindi il cinema dei pionieri delinea due tendenze fondamentali che definiranno gli sviluppi successivi della settima arte: i documentari a carattere scientifico, d’attualità, d’arte e di viaggi, che registrano la vita spontanea con il massimo di precisione nella messa in scena della realtà, e il film drammatico, costruito a tavolino sulla base di una sceneggiatura, con scene ricostruite e attori, che si propone la finalità di provocare determinate reazioni nello spettatore.
Tralasceremo lo sviluppo storico e le prime elaborazioni sintattiche del cinema per soffermarci su una dicotomia fondamentale che segna la storia del cinema e dunque del documentario: la polarità finzione-spettacolo/documentario-realtà. Tale diarchia definisce i confini tra due categorie antitetiche che ritroveremo con caratteristiche diverse nella televisione. Scrive lo storico del cinema Luigi Chiarini:
“Nasce col documentario il puro film, il film come antispettacolo se alla base dello spettacolo poniamo la “finzione”, non la trasfigurazione che è propria anche del film. […] Nascono i primi documentari mentre l’industria si impossessa della nuova invenzione e la spinge verso una forma di spettacolo popolare ricercando tutti quegli elementi che possono servire ad attrarre un pubblico sempre più numeroso. […] Il filo del documentario, che qui ci interessa, si svolgeva con difficoltà e quasi all’ombra di quel grande movimento che era costituito dal film spettacolare, sul quale pur tuttavia faceva sentire la sua influenza. Ma il documentario veniva a prendere una particolare fisionomia, quasi ai margini del cinema, nonostante la sua importanza, proprio per la sua essenza sociale, educativa e culturale, che lo poneva al di fuori dello spettacolo.”
Le considerazioni di Luigi Chiarini, mutatis mutandi, possono essere applicate al mezzo televisivo, dove alla opposizione spettacolo/documentario del cinema possiamo sostituire quella dell’intrattenimento, fiction (reality, varietà, quiz show ecc.,)/programma d’arte.
Come il documentario è escluso dalla proiezione nelle sale (tranne alcuni casi come quello di Michael Moore) così il programma d’arte trasmesso in televisione, proprio in virtù della sua peculiare specificità educativa e culturale, è posto al di fuori del normale palinsesto.
Non è questa la sede per avviare una polemica, ma è oramai un fatto assodato che da circa tre decenni, cioè dal’avvento delle televisioni commerciali, l’arte e la cultura sono state confinate nei palinsesti notturni. In ogni caso senza perderci d’animo, e soprattutto senza entrare nel merito di un dibattito (non è questa la sede) sociologico o di una approfondita analisi massmediologica, possiamo perlomeno tracciare delle considerazioni sulla importanza, ai fini didattici e storico-scientifici, dei programmi televisivi sull’arte. In particolar modo utilizzeremo un osservatorio privilegiato: il documentario d’arte. Ogni tanto bisogna pur ricordare al pubblico italiano che la televisione oltre alla fiction, al varietà, al quiz show, al reality, all’informazione, allo sport ecc. produce, in fasce orarie spesso sciagurate, divulgazione d’arte. Spesso quando in tv si nomina la parola arte i dirigenti mettono mano non alla pistola (poco ci manca) ma si appellano, in nome del popolo italiano, a grafici d’ascolto e vendite di spazi pubblicitari. L’arte purtroppo è un piatto indigeribile sulla tavola della televisione del nuovo millennio. Ma c’è un altro aspetto forse più importante e spesso trascurato: la Rai nel corso dei decenni è riuscita a costruire un archivio di immagini di repertorio che molti altri network internazionali ci invidiano. E’ da lì che occorre ricominciare, dall’archivio e dal repertorio costituito dai programmi d’arte. Dobbiamo guardare a questo scrigno prezioso come ad un dono da consegnare alle generazioni future. Da questo punto di vista il documentario o il programma d’arte dovrebbero rappresentare un importante crocevia tra storia dell’arte e divulgazione televisiva.
Ora quando pensiamo agli archivi o ai centri di documentazione di storia dell’arte spesso ci riferiamo ai testi scritti e solo più raramente al repertorio fotografico delle opere, mentre più difficilmente citiamo l’importanza dei documentari d’arte. Nonostante la nostra epoca si caratterizzi sempre di più  dalla pervasività di immagini digitali sofisticate, ancora oggi annotiamo, soprattutto da parte di molti professionisti del settore, uno scetticismo diffuso di fronte alla necessità di guardare un documentario d’arte come testimonianza importante ai fini di un discorso critico relativo, ad esempio, all’atto creativo dell’artista. Comunque, guardando indietro al passato, di tutt’altro avviso sono stati registi e storici dell’arte, che, prima dell’avvento della televisione, hanno dimostrato la fondatezza storico-didattica del documentario d’arte per studi specifici su alcuni artisti o su singole opere d’arte.
Infatti percorrendo una ideale ricognizione suldocumentario d’arte in televisione, scopriamo che esso trae direttamente ispirazione dal documentario cinematografico degli anni trenta e quaranta di Emmer, Longhi e Ragghianti. Infatti la televisione, alla fine degli anni ’50, non fece altro che rielaborarne i modelli, rinnovando il genere. Proprio Luciano Emmer è tra i primi al mondo che realizza film su opere pittoriche: Racconto di un affresco e Paradiso terrestre, rispettivamente del 1938 e 1940, sono i primi due cortometraggi che segnano l’inizio di un nuovo rapporto tra cinema e pittura. In effetti questi documentari sono accomunati dall’intento di attivare e di attualizzare lo spazio-tempo della pittura, attraverso i mezzi specifici del cinema. Non solo, ma Emmer usò le tecniche del montaggio narrativo per drammatizzare i personaggi dei quadri, e attivò la m.d.p. mobile per registrare paesaggi e ritratti, dove le riproduzioni sullo schermo evocavano la vita in tre dimensioni meglio degli originali pittorici.
Inoltre nel 1948 escono, in tutta Europa, alcune importanti pellicole sull’arte, come “Van Gogh” di Alain Resnais e Gaston Diehl, “Thorvaldsen” di Carl Theodor Dreyer, anche se la pellicola che riscuote maggior successo è il “Rubens” di Henry Storck e Paul Haesaerts che vince il Leone d’oro a Venezia nel 1948. E’ da ricordare però che con Carlo Ludovico Ragghianti e Roberto Longhi che il documentario d’arte diventa lo strumento d’indagine critica per eccellenza che fonda nuove modalità di analisi storico-artistica e un procedimento innovativo di divulgare l’arte.
In tempi più recenti, invece, Cesare Brandi e Federico Zeri assieme al regista e poeta Franco Simongini, si sono messi al servizio del mezzo televisivo per portare dentro le case degli italiani in modo semplice e chiaro, l’arte. In effetti, e lo hanno dimostrato i personaggi illustri appena citati, il documentario d’arte offre strumenti metodologici validi per l’analisi delle opere d’arte. Inoltre il documentario trova il suo specifico linguaggio soprattutto quando registra il working progress dell’artista di fronte alla materia divenendo un valido supporto metodologico per l’analisi delle opere d’arte. E’ anche vero che spesso la critica contemporanea ha trascurato l’atto formativo per concentrarsi sulla idea o sul contenuto (l’iconologia).
Oggi la situazione non è granchè cambiata e lo dimostra la scarsa attenzione per il documentario d’arte come testimonianza del processo di realizzazione dell’opera d’arte: pochi e disparati documentari vengono premiati nei festival, ma sempre all’interno di uno spazio per così dire altamente specialistico.
Ora, l’accusa che solitamente viene rivolta al documentario è di essere registrazione passiva della realtà e non interpretazione dell’opera d’arte. Ricordiamo che la cosiddetta registrazione del mezzo è comunque operata dall’essere umano e dunque si concretizza sempre in un linguaggio, il quale riflette la trasformazione e la selezione spazio-temporale della realtà.
I primi programmi sull’arte si ispirano al cinema, e in quegli anni il cinema italiano era rappresentato da un’esperienza capitale: il neorealismo. Proprio il neorealismo italiano offre i modelli su cui costruire la tradizione documentaristica italiana (ricordiamo a tal proposito un grande regista come Vittorio De Seta).
Il cinema, quindi, influenza il linguaggio del neo-programma d’arte televisivo, ma nonostante ciò, il piccolo schermo comincia a elaborare una sua specifica sintassi. Si cominciano così a definire due tipologie del documentario sull’arte: il primo, una specie di “catalogo audiovisivo” museale con voce fuori campo su sottofondo musicale. Il secondo si ispira allo specifico genere catodico: il telegiornale. Ne risultano programmi sempre più “televisivi” che impiegano studio, conduttore, lanci di servizi e interviste di approfondimento l’adesione del mondo accademico al nuovo mezzo di comunicazione in quegli anni e’ entusiastica. Alcuni tra i maggiori studiosi considerano la televisione un fondamentale strumento per una migliore conoscenza e diffusione della storia dell’arte. La scommessa è quella di fondere nel territorio della comunicazione visiva, la specificità del linguaggio delle arti con le modalità linguistiche del nuovo mezzo televisivo.
Oltre ai due modelli citati in precedenza  (il catalogo audiovisivo e lo studio televisivo-TG) ne esiste un terzo: un genere di documentario televisivo che fa la sua comparsa negli anni ‘70. È un modello che possiamo denominare: Artista al lavoro. Le telecamere, infatti, entrano negli studi degli artisti per testimoniare la realizzazione di un’opera d’arte e rivelare i segreti del mestiere. Forse il primo e più celebre di questo tipologia di documentario è il lungometraggio cinematografico, premiato a Cannes nel 1956, “Le mystere Picasso£ di Henri-Georges Clouzot, ma ricordiamo anche quello di Hans Namuth dedicato a Pollock.
Negli anni settanta l’ingresso delle telecamere negli atelier degli artisti è l’occasione, non solo per documentare le diverse tecniche artistiche, ma anche per far conoscere le loro personalità, mettendone in luce gli aspetti meno noti al grande pubblico. Questo genere di programma televisivo riscuote un grande successo di audience negli anni Settanta, e ha il suo maggior rappresentante nella figura di Franco Simongini.
“Negli anni Settanta, Franco Simongini ideò un vero e proprio genere di documentario sull’arte: in presa diretta l’artista creava l’opera davanti alla telecamera mentre l’intervistatore ne raccoglieva riflessioni e commenti”. Le avventure dell’arte.

Mario Ursino