Da, “IL TEMPO”, 8 novembre 1979
Nelle pianeggianti piccole distese di terreno che s’aprono a ventaglio, a quadrato, a triangolo, fin sui primi crinali delle misurate colline umbre, nell’alta valle del Tevere, da Umbertide a San Sepolcro, tutto quell’ondulato mareggiare di piante larghe dalle foglie sembra salire a Città di Castello come un’onda di varie sfumature. A Città di Castello, confine dell’Umbria con la Toscana, dove dipinse Raffaello ben quattro opere, di cui è rimasto solo un gonfalone giovanile, ma qui c’era lo Sposalizio della Vergine ora a Brera a Milano e Luca Signorelli (nel ricco museo locale c’è la sua più bella tavola Il Martirio di San Sebastiano), si respira odor di biondo e bruno tabacco, ci sono gli essiccatoi grandi e vasti come studi cinematografici, e aspirare quel morbido profondo vapor di tabacco in essiccamento che si spande quasi dalla terra è dolce
e quieto, sa di riposo e di confortevoli dimore abitate da tranquilla gente.
In uno dei capannoni-essiccatoio, vasto come un hangar d’aereo, tutta la lunga parete di quarantatrè metri dinanzi a me è occupata da un pannello bianco di legno su cui, impaginate come in un libro patinato a grande formato, si dispiegano dieci opere di Burri, diverse di tecnica; alcune luci-riflettori, che pendono dall’alto soffitto, danno chiarore ad ogni opera con l’intensità giusta, è insomma una scenografia perfetta studiata al millimetro, in quel baluginare di riflessi nella penombra del capannone velato, quasi dagli aromatici vapori di sigaro. Seduto davanti a questa lunga sequenza di opere, sta solo e pensoso il pittore Alberto Burri, il padre della pittura informale, uno degli artisti italiani più noti nel mondo.
In queste dieci opere disposte dall’artista con abilissima mano da scenografo-regista (che ha sfruttato l’atmosfera e le luci e gli odori dell’ambiente per creare maggiore suggestione), Burri ha voluto esporre un lavoro rappresentativo per ogni periodo della sua attività (anche se mancano i sacchi, gli emblemi più famosi della sua pittura). Dieci “campioni”, per considerare tutto il mondo poetico e pittorico di Burri. In questa mostra che ancora non è mostra, cioè non aperta al pubblico, ma solo a pochi amici e visitatori (si dovrebbe aprire alla fine dell’anno, e poi l’esposizione andrà nella nuova pinacoteca di Monaco di Baviera) l’osservatore potrà (o non potrà) trovarci, secondo i suoi gusti, il suo temperamento, la sua cultura, quello che Burri pensa dell’arte e del mondo.
Da sinistra a destra (con alternanza di opere di misura quadrilatera di metri 2 e 50 per lato e di opere rettangolari della misura 3 metri e 75 per 2 metri e 50) in piedi accanto ad un Burri schivo e muto com’è di sua consuetudine, ho fatto scorrere l’occhio lentamente, e così da un ferro slabbrato (che lascia intravedere al di sotto del taglio un filo di rossa vernice) si passa ad una plastica bianca con un tondo appena rilevato al centro splendente di riflessi e ombreggiamenti, e poi ad un cellotex (una sorta di pannello composto di truciolato di legno) con due impronte nere.
Nel mezzo della parete c’è, a rompere la successione delle opere materiche, una tempera multicolore, forme di fantasia, blu azzurro verde bianco nero, e poi, sempre facendo scorrere l’occhio verso l’estremità destra del capannone-essiccatoio, un altro cellotex con la metà inferiore tutta marrone e l’altra parte superiore per metà nero lucido e l’altra a forma di quarto di luna dorata con sfoglie di oro zecchino; si susseguono due altri cellotex, uno marrone e l’altro completamente nero, e poi un pannello di acciaio inossidabile grigio tortora, e per finire un quadro bianco, interamente bianco, a chiusura della sequenze. Si era partiti dal ferro slabbrato a ferita e si arriva all’abbaglio finale di estremo candore.
Che dire? Burri non concede interviste, evita qualsiasi contatto con il pubblico, vuole che sia la sua opera a parlare da sola. Burri è nato a Città di Castello nel 1915, è laureato in medicina (ma non ha mai esercitato la professione) è attaccato alla sua città in maniera quasi morbosa, forse solo qui trova compagnia e conforto e bellezza; è un gran cacciatore, ha molti amici che per lui ora si getterebbero nel fuoco, e infatti a Città di Castello si sta approntando in uno splendido palazzotto del quattrocento, un museo interamente dedicato alle sue opere, quelle più belle e inedite che Burri ha sempre tenuto per sé nel suo bunker-studio a via Plinio il giovane. Di lui hanno scritto tutti i più famosi critici del mondo, molti per osannarlo, qualcuno per stroncarlo; in questi giorni è uscito un saggio nelle edizioni Mazzotta-Studio Marconi su Burri – la forma e l’informe – del giovane critico Flavio Caroli. Ma lo studioso che ha seguito Burri da sempre, e gli è amico ed estimatore, è l’agguerritissimo Cesare Brandi che a proposito di queste opere or ora da noi elencate scrive: “E proprio perché queste opere non significano nulla, non ti commuovono, non ti esaltano, ma ti hanno portato inavvertitamente in un oltre, dove non c’è più né contemplazione né attesa, ma come si fosse raggiunta, impensabile e fuori del tempo, la cosa in sé. Non l’idea dunque, qualcosa di modulare e non percettibile, matrice del fenomeno, ma la cosa oltre cui non si va, che non s’interroga, perché è quella che è, né può essere diversa. Questa sensazione di limite estremo, di orizzonte invalicabile, è, per me (scrive Cesare Brandi) l’evento straordinario di queste opere semplicemente di Burri che non si può paragonare con nessun’altra sensazione provocata dall’opera d’arte”.
Franco Simongini