Da, “VITA”, 25 marzo 1972

In un grande arioso appartamento in via degli Scialoia, con le finestre che danno sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, una casa costruita in altri tempi, con i soffitti alti, quasi irraggiungibili, saloni con gli stucchi e ingressi con massicce porte di noce, in una di queste case, vive e lavora Fausto Pirandello, uno dei più originali, dei più famosi, pittori italiani contemporanei.
Parlare di un uomo schivo come Fausto Pirandello, non è certamente facile. Non è facilmente avvicinabile e si potrebbe cadere in superficialità di giudizio, in pressapochismo di valutazione.
In pochi artisti viventi c’è questo amore esclusivo per il suo lavoro come in Pirandello. A lui non interessa, ad esempio, tutto quello che può esserci dietro un magistero artistico come il suo, ora che ha settanta anni: e cioè il mercato, i mercanti, le richieste di mostre, di quadri, le sollecitazioni per interviste, dichiarazioni, foto, riproduzioni, insomma tutta un’altra, più pratica, redditizia, attività che si svolge alle spalle del pittore (per la maggior parte dei pittori di oggi, anzi, l’attività speculativa viene prima di quella pittorica, sulla spinta di un “cinismo mercantile” che purtroppo è il tarlo e la squalifica di molta arte cosiddetta di qualità). Questo per Pirandello potrebbe anche non esistere, e infatti lo ignora, lo trascura: per lui esiste solo la pittura e il suo più grande desiderio, la sua più grande gioia è quella di essere lasciato in pace, di evitare complimenti, visitatori, estimatori.
Quest’uomo alto, dinoccolato, con i capelli a spazzola sale e pepe, volto ad un grigio chiaro sempre più intenso, quest’uomo d’una gentilezza disarmata e disarmante, è uno dei maestri
del nostro tempo, soprattutto per la lezione di serietà che egli ha dato in un tempo in cui l’ultimo dei dilettanti si crede qualcuno.
Per quanto riguarda i contenuti della pittura di Pirandello, in questi ultimi anni, la disgregazione cubista, il suo affollarsi di toni e di figure in una confusa figurazione come se la scena rappresentata fosse stata capovolta, disgregata, polverizzata (in cui l’ocra, il marrone, l’azzurro, il giallo, la terra di Siena venivano fuori dalla tela con una preziosità di affresco incompiuto trecentesco) sono messe un po’ in sordina, ora la figura umana ha ripreso la sua sembianza completa, la scena si è collocata al punto giusto, le spezzature formali si sono attenuate, sembra essere ritornati ad un realismo trasognato, ma lucido e preciso, ad un realismo spietato eppure accorato di pietà, di nostalgia.
Queste folle di bagnanti, di nudi, di corpi umani impietosamente distesi sulla sabbia nella sguaiata siesta della calura pomeridiana sono personaggi di una umanità vinta, bestializzata,
distrutta, una folla che si rinserra, ammucchia un corpo accanto all’altro, quasi per un timore, per ricevere un conforto, in una sorta di collettiva paura metafisica. E Pirandello, proprio lui che non ama la folla, che detesta i luoghi frequentati, che anela la solitudine e il silenzio come un dono del cielo, proprio lui scatena sulla tela e sulla carta le composizioni della sua ossessione, e non direi tanto “ossessione del personaggio” secondo una fin troppo abusata formula di Castelfranco, ma ossessione della volgarità, della materia, del non senso, della cieca brutalità che avanza per distruggere quel poco di pace, di benessere, di tranquillo silenzio e ozio borghese, civile, che rimane tra noi.
E non si parli di sensualità di Pirandello in questi nudi: i corpi sono deformati, accentuati, grottescamente caricaturati in pose oscene e innaturali proprio per accentuare questa sua violenta denuncia poetica, e nello stesso tempo dar vita ad un tenero contrasto di toni, mezzetinte, sfumature di blu, azzurro, ocra, marroncino, rosa del cielo e della sabbia nel “bailamme” dei corpi umani in un bestiale assopimento. La “pietas”, la lucida liricità dei toni e delle forme, la spazialità teatrale delle composizioni, la coerenza, la spietata fantasia, fanno di questo brulicante e insofferente mondo di Pirandello un inferno laico, una bolgia dei vivi, dove casomai il Purgatorio e il Paradiso, l’attimo di respiro, l’ansia smemorata, la gioia pura, la scintilla di passione che rimane ancora per sperare e vivere, non è nei gridi di colore e nelle pennellate clamorose, ma nella quieta staticità di una natura morta, un mandolino, un piffero o un fornello o una scatola di fiammiferi, ultimi paradisi perduti, in un mondo, in una società, che più e più si involgarisce precipitando nell’infelicità del troppo chiedere alla vita.
Ma sentiamo quello che dice Fausto Pirandello a proposito dei suoi pastelli, che espone in questi giorni alla galleria “La Vetrata” di Roma, testimonianza tanto più preziosa consideran do il carattere schivo del Maestro.

 “Mi sembra che o pastelli o pitture il discorso sia poi tutt’uno, debba essere lo stesso discorso. Molte mie pitture sono nate sullo schema di tali pastelli nei quali ho registrato la mia prima intuizione con la facilità dellapossibile immediatezza. Divenuti dapprima quasi una tempera senza ‘medio’, per essere stati improntati con colori umidi e quindi su una scala di tono maggiore, solo ultimamente – e parlo dei quindici ultimi anni – con l’adozione dei fissativi mi sono ridotto alla tecnica pura del pastello, che mero pregiudizio, ritenere instabile ed eccessivamente friabile se non furono adoperati nella collazione dei toni, colori per loro natura alterabili. E ciò allora non riguarda la tecnica ma la chimica.

Vari di soggetto, risentono della ricerca del momento, scaglionati come sono in un’ arco di molti anni di lavoro. (dice Pirandello) Tenui o violenti, estemporanei o elaborati, non credo che manchino di interesse, a loro modo, di piacevolezza e di grazia. A un critico straniero che una volta li ha visti schierati sul muro del mio studio sono parsi farfalle. Non trovando la parola italiana, muoveva le braccia e poi sviava la mano per rendere l’immagine. Ce l’ho visto palpitare appresso con molto divertimento. Ci trovammo ad un punto, tutti quanti eravamo presenti, braccia aperte, fino a che la parola non venne e si sostituì all’immagine; che un alito di vento, penetrato dalla finestra, rese verosimile, agitando i pastelli, e lui edificato. Teniamocene contenti anche noi che, infine, non presumiamo di passare con questi – né ahimè, con nulla altro di fatto – sotto l’arco di Tito”.

Franco Simongini