Incontrare Turcato è incontrare un amico, non dico per chi già lo conosce e lo frequenta da anni, voglio dire anche per un sconosciuto qualsiasi che abbia la fortuna d’imbattersi sulla sua stessa strada (e Turcato è un infaticabile camminatore che la sera al tramonto puoi trovare dalle parti di Via Ripetta, Via del Babuino, Via Margutta, al Corso, con la sua aria svagata, ondeggiante come intontita, la testa incassata nelle spalle, spettinato col suo naso a punta e gli occhietti vispi, appannati quasi di malinconia e rimpianto per chissà gioie e bellezza trascorse, che sembrano annaspare di qua e di là in cerca di conforto) e allora qualsiasi compagno di strada sembra essere stato suo amico da sempre, può discutere con lui d’arte e del destino del mondo e abbracciarlo e persino baciarlo e magari bere un bicchiere di vino insieme in quelle sempre più rare osterie rimaste a Roma e sentirlo parlare con quella sua strascicata e inconfondibile cadenza veneta, quasi fosse una nenia, una musica di parole sdipanate sul tuo volto per incantarti e addormentarti. Non c’è frapposizione intellettuale tra lui e il mondo, non esiste un Turcato personaggio in maschera o in finzione, Turcato è l’uomo più generoso, più sprovveduto, più disponibile, più imprevedibile che ci sia a Roma nell’ambiente artistico (per questo era anche facile ingannarlo), è uno che ama l’aria, la luce, i colori, le nuvole, i pensieri della gente, cammina per terra ma sembra che voli leggermente sopra le case. Una volta, quarant’anni fa, era un pittore figurativo, paesaggi, nature morte, bandiere al vento, e poi la sua pittura, il suo colore, i suoi segni, i suoi geroglifici cinesi, s’è fatta più lieve imponderabile, trasparente e ha usato tutti i materiali, dai più consueti ai più eccentrici e inusuali, dalla plastica alla gomma piuma, dalla carta carbone alle pillole contro il mal di testa, dalle monete cartacee da un dollaro ai ritagli di stoffa, i suoi quadri diventano così feste del colore, comunicano la gioia degli occhi, di stare e vivere in questo mondo sempre più folle.
E quello che colpisce in Turcato è la sua fede, la sua tenacia, il suo entusiasmo nell’essere e proclamarsi artista astratto, lui, oramai considerato uno dei pochi maestri veri di quest’arte. Nato a Mantova nel 1912 Giulio Turcato ha caratteristiche veneziane perché è vissuto a Venezia nella sua giovinezza, vi ha studiato nel ginnasio e nel liceo artistico da cui ha ottenuto la maturità. Ha poi seguito un poco l’accademia e piuttosto la scuola del nudo, prima di andare in Sicilia a fare il soldato tra il 1934 e il 1936.
Lasciata Venezia è andato a Milano, Turcato soffrì una lunga crisi che egli chiama il suo periodo nomade: ammalatosi passò per vari ospedali sentì il bisogno delle serietà della vita e del lavoro e si convinse della relatività dei risultati. Nel ’40 ritornò a Venezia, nel ’43 a Roma, dove espose per la prima volta con un gruppo alla Galleria “Lo Zodiaco” di Roma. Arrivata la liberazione si trovò a dipingere paesaggi di tipo Scuola Romana, sotto l’influsso di Mafai, ma presto si orientò verso una specie di neocubismo. Nel 1947 andò a Parigi e subì il fascino dell’astrattismo di Magnelli e poi Kandinsky. Tornato a Roma partecipò al movimento Forma 1 e poi espose alla Mostra d’Arte astratta italiana.
Ha fatto numerosi viaggi, in America, Europa, Cina.
“Recentemente ho fatto una mostra all’Istituto di Cultura a New York”, mi dice Turcato con la sua voce nasale inconfondibilmente veneta – “un’altra in Germania, a Francoforte, è stato acquistato anche un mio quadro per il Museo di Monaco. Forse farò una mostra in Svizzera. Insieme con Dorazio e Scialoja ora ho una mostra alla galleria “Lo Spazio”. I miei lavori sono delle strutture, libertà incatenata, come la chiamo io, e poi monocromi…. in linea di massima io dipingo per modificare il gusto della gente anche in senso avveniristico.
Naturalmente questo viene dopo, prima ci deve essere l’istinto o, per meglio dire, l’attitudine, il resto viene dopo. Per esempio le varie espressioni dell’arte attuale e generalizzando nei termini, sono ancora succubi o di un neoclassicismo (vedi Fontana) o di un neobarocchismo (Segal, Rauschenberg ecc…). Non è detto che la morte dell’arte sia già avvenuta, può darsi vi sia una trasformazione di quello che viene inteso con la parola arte. Ma tale attitudine avrà sempre un modo di esprimersi. “Ogni artista oggi lavora per conto suo” – dice Turcato – “non c’è voglia da parte degli artisti d’impegnarsi. Se si farà ad esempio la Biennale di Venezia allora, certo, darà una spinta, una sollecitazione a tutto l’ambiente artistico. Politicamente adesso sono disimpegnato, sono sempre astrattista, il Fronte Nuovo delle Arti è stato un movimento costituito per favorire l’arte moderna, invece Pizzinato e compagni dicevano che l’arte serviva alla politica, al partito comunista. Non credo all’impegno politico nell’arte, considerati i risultati…
Sul rapporto arte-politica ho fatto quadri che alle volte sembravano di avere un rapporto, cercavo di impostare i motivi politici di anni fa in una estetica nuova e non ottocentesca, come in generale e vogliono i politici. Penso che un pittore con la sua opera si inserisca senza volerlo in un fatto politico, ma non in un fatto politico spicciolo, un fatto politico di un periodo che va dai dieci ai quaranta-cinquant’anni. E’ politico cioè in un senso inverso, per la socialità della sua opera e delle sua vita, non solo per una scelta ideologica”.
Franco Simongini